DONNE NELLA REPUBBLICA SOCIALE
ITALIANA
LE DONNE ITALIANE NELLA RSI Sacrifici che sono dimenticati
Lidia Baldrati Antolini
Dedichiamo insieme un po' del nostro tempo e dei
nostri pensieri alle donne italiane, che quaranta e più anni fa
sono passate attraverso una indimenticabile trasformazione della società
in cui vivevano.
Le donne che accettavano i sacrifici della guerra,
quelle che - loro malgrado - li subivano, ma soprattutto quelle che erano
consapevoli e partecipi degli avvenimenti eccezionali di quei mesi. La
RSI ha attirato molti giovani: ragazzi e ragazze hanno affollato le riaperte
federazioni fasciste, confortando i pochi veterani che "per l'onore
d'Italia" erano ancora disposti a battersi. Ma non delle giovani vorrei
per ora parlare: è quasi un obbligo quando si hanno 18 anni essere
pronti a tutto per un ideale; la giovinezza dovrebbe essere sinonimo di
generosità e di ardimento. Fortunati noi che abbiamo sentito in
gioventù il richiamo della Patria!
Penso piuttosto a quelle donne adulte che avevano
responsabilità di famiglia, responsabilità aumentata da quando
gli uomini erano partiti per la guerra.
Vogliamo ripensarle ora che anche noi abbiamo attraversato
le varie età della vita e possiamo, nel quadro di quei tempi e di
quelle vicende, esaminare il comportamento delle donne italiane.
Da tre anni esse convivevano con l'ansia per la
sorte dei mariti, dei figli o fratelli lontani, reggevano da sole il peso
dell'educazione dei figli e lottavano quotidianamente con le crescenti
difficoltà degli approvvigionamenti. Come erano queste donne degli
anni Quaranta? La faziosa propaganda del dopoguerra ha insistito su una
arretratezza della condizione femminile voluta dal regime. Certamente la
donna, allora, era meno autonoma, ma non perché lo volesse il governo
dell’epoca, era così il costume dei tempi; le donne erano in gran
parte casalinghe, c'era una più marcata suddivisione dei compiti,
delle responsabilità e delle professioni. I costumi si evolvono
gradualmente e così è avvenuto da noi come probabilmente
ovunque.
Piuttosto ricordiamo che, durante il Ventennio fascista,
erano sorte organizzazioni di partito e dopolavoristiche cui partecipavano
entrambi i sessi. Ma soprattutto quello che ha determinato sicuramente
un diffuso affrancamento femminile è stato il rigore con cui veniva
fatto rispettare l'obbligo scolastico in questo modo l'istruzione, che
è la base di una corretta emancipazione, era diventata patrimonio
comune a tutte le donne al di sotto di una certa età. Ricordiamo
poi l'istituzione dell'Opera Maternità e Infanzia che aiutava, consigliava,
proteggeva la donna nel momento più delicato e difficile della sua
vita. Le donne italiane non erano insensibili a questi provvedimenti, tanto
che nel 1935 rinunciarono al loro oro per aiutare la Patria nell'impresa
etiope.
Ma dopo tre anni di guerra non possiamo meravigliarci
che nella popolazione si trovasse un sentimento di stanchezza, un desiderio
di pace, quella pace che avrebbe fatto tornare i soldati, ricomponendo
le famiglie.
Nell'estate 1943, quando la guerra era nel suo momento
più drammatico, con il territorio nazionale invaso e un cambiamento
alla guida del governo che aveva portato incertezza e confusione, gli angloamericani
avevano intensificato i bombardamenti sulle città, facendo molte
vittime fra donne, vecchi e bambini e distruggendo la casa di molte famiglie,
costrette a trovare rifugio presso estranei, in paesi lontani.
Credo che la perdita della casa per una donna sia
un dolore paragonabile a quello della morte di un congiunto; per l'uomo
la casa può essere solo un appoggio funzionale, ma per la donna
è sempre essenziale: è il risultato delle sue scelte, della
sua inventiva; modesta o ricca, è l'insostituibile guscio della
sua vita.
Lo sfollamento comportava faticosi viaggi in treni
stracolmi, lunghi tratti di cammino, orari incerti, mezzi malsicuri. E
sempre la minaccia di bombardamenti e mitragliamenti. Per noi ragazzi viaggiare
sui carri merci poteva essere divertente, ma per una persona di mezza età
doveva essere veramente penoso. Dopo il tradimento dell'8 settembre e lo
sbandamento dell'esercito regio, la vita riprendeva con difficoltà
acuite nel nuovo stato repubblicano.
Le notizie dei congiunti lontani erano ancora più
incerte e gli approvvigionamenti delle città sempre più problematici.
Noi tutti, penso, ci siamo vantati coi nostri figli delle limitazioni di
cui abbiamo sofferto; ma chi stava in prima linea in questa battaglia quotidiana
erano le nostre mamme, che dovevano mettere in tavola i pasti con le poche
briciole che passava il razionamento. Con la mia esperienza successiva
di madre mi sono domandata spesso come riuscissero. Ricordo l'avvilimento
nel dover sottostare al ricatto degli speculatori della borsa nera, non
solo la rabbia per la sempre crescente esosità, ma anche la convinzione
che l'opera di imboscamento delle risorse alimentari in questo commercio
clandestino contribuisse a minare il morale degli italiani ed alimentasse
il disfattismo e le diserzioni del proprio dovere.
Chi ha passato quei mesi lontano dalla propria casa,
in caserme fredde o in accantonamenti esposti al nemico, con turni di guardia,
marce estenuanti, col pericolo sempre incombente di una imboscata, chi
ha visto cadere il comandante o il camerata, penserà che i nostri
disagi erano ben poca cosa rispetto alle proprie vicissitudini, ma credete,
le donne di cui sto parlando, nelle loro difficoltà vedevano la
rappresentazione di quelle che i loro figli, mariti o fratelli stavano
sopportando, e soffrivano per questo più che per se stesse.
La tragedia della guerra civile aveva portato l'insidia
anche sul territorio nazionale; il nemico non era più oltre una
frontiera, ma sulle montagne a ridosso dei centri abitati, pronto a colpire.
Questo nuovo aspetto della guerra non ha risparmiato i civili; in gran
numero sono state assassinate le aderenti al PFR, le sorelle e le madri
dei volontari, le insegnanti, colpevoli di aver inculcato l'amor di Patria,
le dipendenti degli uffici pubblici che apparivano come rappresentanti
dello Stato, in genere obiettivi molto facili da colpire, persone che non
si cautelavano e non si difendevano.
Ho contato nei nostri elenchi, nelle provincie del
Centro e Nord Italia, 1153 nominativi femminili ed oltre 700 ignoti. Sono
notizie incomplete, molto al di sotto della realtà: mentre per i
caduti delle formazioni militari i superstiti hanno conservato il ricordo
ed aiutato le ricerche, per i civili spesso non è rimasta traccia
o per lo sterminio di intere famiglie o perché i parenti, per paura
o per opposta idea, hanno nascosto le informazioni. La guerra civile penetrava
spietata nelle comunità di ogni livello; le diverse tendenze spesso
si manifestavano anche in seno alla stessa famiglia. Pensiamo alla tragedia
di una madre che vede i figli schierati in opposte fazioni, apertamente
nemici. Come deve essersi sentita, dovendo ammettere che se uno era un
idealista l'altro era un traditore? Una donna le proprie certezze le trovava
e le coltivava nell'ambito della famiglia; scarsi i giornali, non molto
diffusa la radio, le idee si formavano e si condividevano nell'esperienza
comune. Ora l'unità familiare era spaccata, ma il cuore della donna
sanguinava per entrambi i figli.
Molte si sono trovate in questa tragica situazione;
citerò come esempio un nome noto: Edda Ciano Mussolini. Io non ho
conosciuto nè frequentato le donne schierate con la fazione partigiana;
qualche anno fa ho saputo che era morta la vecchia madre di un noto comandante
partigiano che aveva dato veramente del filo da torcere alle formazioni
della RSI. Mi sono chiesta cosa avrà pensato quella madre, in tutti
questi anni, constatando che al nome del figlio non era stata intitolata
nessuna via o piazza o scuola, come per altri partigiani di minor importanza.
I suoi compagni l'avevano ucciso nell'estate del '45, il capitano Neri
aveva avuto la dabbenaggine di volersi opporre alla spartizione del tesoro
rapinato a Dongo. Si è meritato perciò, oltre alla morte,
la dimenticanza. Ma non basta il dolore e l'amarezza di questa madre per
compensare il mare di dolore che ha sommerso le madri d'Italia che, dopo
aver perso un congiunto volontario della RSI, l'hanno sentito condannare,
vilipendere, accusare di tutti i mali della Patria.
Le donne d'Italia però non hanno trovato
soltanto sofferenza e lacrime in quella breve stagione di guerra. Nonostante
tutte le avversità, molte conservavano, se non la speranza della
vittoria, la convinzione che la Patria meritasse ogni sacrificio, senz'altra
contropartita che l'orgoglio di compiere il proprio dovere.
Per queste donne la grande occasione è venuta
nella primavera del '44, quando il governo della RSI ha aperto la coscrizione
di volontarie in una formazione militare denominata “Servizio Ausiliario
Femminile". Molte furono le donne, giovani e meno giovani che accolsero
la chiamata e partirono per questa esperienza entusiasmante.
Nel dopoguerra si è volutamente taciuto di
questa realtà, che smentiva la già citata immagine della
mentalità fascista come antiquata e che negava al sesso femminile
dignità e senso di responsabilità.
Qualche accenno è stato fatto descrivendo
il Servizio Ausiliario Femminile come una manovra di propaganda che cercava
effetti spettacolari, contando su un fanatismo scriteriato ed isterico.
Nulla di più falso. Non c'era niente di spettacolare
nello spirito e nel contegno di queste volontarie: si sottomisero all'addestramento,
accettarono la disciplina, si sobbarcarono trasferimenti e compiti pesanti
senza discutere. Non erano guerrigliere col mitra ed uniformi di fantasia.
Indossavano con orgoglio il loro bel grigioverde contraddistinto dai gladi
e da un sobrio fregio rosso sul basco; erano consapevoli di rappresentare
una provocazione sferzante per la numerosa popolazione degli attendisti
e degli imboscati. Il loro contegno era sempre controllato e sereno, non
ignoravano di essere guardate con occhio critico e ostile e che ogni loro
mancanza avrebbe screditato l'organizzazione. Dalla primavera del '44 a
quella del '45 fu un continuo fiorire di arruolamenti; le italiane gremivano
i corsi di addestramento che le trasformavano in disciplinati soldatini.
Erano contestate da molti, perbenisti e pavidi,
che non sopportavano di confrontare la loro pochezza con il coraggio di
queste donne.
Talune vennero accolte con qualche diffidenza
anche dai camerati, ma non se ne lasciarono intimidire; accettarono incarichi
modesti di scritturali, infermiere, magazziniere, interpreti, felici di
sostituire lo scarso personale maschile tenendolo disponibile per compiti
più idonei. Non erano per questo risparmiate dagli attacchi del
nemico che colpiva di preferenza i bersagli meno difesi. I partigiani sapevano
bene che ogni ausiliaria era una volontaria determinata e convinta e che
era inutile tentarla alla diserzione, come talvolta poteva accadere coi
militari di leva. Anch'esse diedero un ricco contributo di sangue generoso:
conosciamo i nominativi di 194 ausiliarie uccise ed altre 14 non sono state
identificate. Se considerate che non sono le perdite di una battaglia ma
che sono state assassinate ad una ad una, troverete agghiacciante questo
dato. Fu il primo esperimento di donne soldato in Italia e resterà
unico per le circostanze straordinarie in cui si è svolto, per il
rischio che comportava, per il significato di riscossa che rivestiva.
Un pensiero infine alla nostra lontana, indimenticabile
giovinezza. Quando il Fascismo si è affermato in Italia, lo Stato
esisteva da pochi decenni; era come se uscisse da una prima adolescenza
travagliata da inquietudini e contrasti.
Il Ventennio che seguì ebbe i caratteri di
una giovinezza con grandi entusiasmi, grandi sogni, inevitabili intemperanze,
ma anche fervido di importanti intuizioni, di realizzazioni felici.
Per 20 anni gli italiani hanno pensato in grande! Così,
come la viveva la Nazione, anche noi vivevamo la nostra giovinezza. Aver
avuto 18 anni quando li aveva anche la nostra Patria è stato un
privilegio raro, che ci ha coinvolto e ci ha segnato per tutta la vita.
VOLONTA' N. 5. Maggio 1995 (Indirizzo
e telefono: vedi PERIODICI)